venerdì 2 novembre 2012

Il rapporto con gli investitori long-term


Si sta a lungo dibattendo sul ruolo ricoperto dalla figura dell’investitore long-term in tema di crescita e sviluppo. Dato per assodato che molte economie floride si siano scontrate con quella che viene chiamata “double-dip recession”, la maggior parte dei governi, anche europei, ha quasi del tutto perso la possibilità di reperire sufficienti risorse finanziare da poter investire nei settori che più si confanno all’idea di crescita e sviluppo per l’appunto, e cioè le infrastrutture, l’energie rinnovabili, il settore R&S ed ultimo, ma non meno importante (specialmente in Italia), il sostegno alla PMI. Lo stesso vincolo di bilancio spoglia ancor di più i governi della capacità di mettere in atto facilmente quelle politiche anticicliche volte a stimolare la domanda aggregata e mitigare la disoccupazione. È opportuno inoltre mettere a fuoco il contesto in cui tutto questo prende forma, ossia una fase di sfrenato deleveraging finanziario ed un momento di ampie riforme nella disciplina fiscale. Se prendiamo in considerazione, ad esempio, il classico modello del settore bancario europeo[1] ogni singolo elemento della crisi finanziaria, così come del nuovo apparato normativo in tema di capitalizzazione e soprattutto del processo di desaturazione della leva finanziaria, ha contribuito a lederne il funzionamento. Dopotutto l’introduzione di piani normativi come Basilea III, ancor più esigenti sulla copertura dei rischi a mezzo di patrimonio core, e l’inasprimento congiunturale delle condizioni di finanziamento, non hanno nascosto nemmeno uno degli aspetti negativi con i quali si è presentato il fenomeno del credit crunch. In merito a questo sono stati presi dei provvedimenti che però non sempre sono riusciti a sembrare più di un rattoppo. Gli LTROs per esempio; che, contrariamente al loro nome, hanno avuto un effetto di breve termine dimostrando di non essere adatti al finanziamento dell’economia nel suo complesso. Ed ancora, l’unione bancaria[2], il cui compito è quello di rendere più omogenee le diverse strutture normative nazionali, si è confermata essere una operazione non immediata e molto complicata.
 
In altri termini la combinazione di declino economico con l’aumento nella difficoltà di finanziamento hanno indebolito ogni settore economico. Gli investitori long-term hanno subito una discesa vertiginosa nelle statistiche dell’eurozona. Se si pensa che prima della crisi, secondo dati della Bank for International Settlement, circa il 40% degli investimenti produttivi a lungo termine erano sostenuti da investitori istituzionali long-term anche attraverso l’acquisto di quote di partecipazione ai capitali delle banche, e che ora quella percentuale si sia ridotta prima al 35% poi a poco più del 18%, ci si può chiedere in che modo sia possibile sviare questa penalizzazione dalla crescita economica. Ma soprattutto: esistono dei finanziatori in grado di sostituire il compito delle banche? Franco Bassanini presidente di Cassa Depositi e Prestiti insiste molto sul fatto che CDP sia l’unica istituzione ad aver introdotto fondi atti al risanamento dei fabbisogni finanziari del sistema creditizio. E queste iniziative hanno avuto un effetto positivo specialmente sulle PMI il cui rapporto con il credit crunch si può paragonare a quello tra condannato e boia. La stessa Cassa sta attualmente lavorando con la European Investment Bank al fine di instaurare un meccanismo di finanziamento degli investimenti infrastrutturali europei attraverso l’iniziativa dei “Project Bond”[3] 
Bassanini però ci tiene a sottolineare che non saranno una “panacea”[4]; ovvero non potranno certamente essere l’unica alternativa a cui il sistema di finanziamento long-term si deve adoperare. Una buona via da intraprendere dovrebbe essere quella di una maggiore e più forte collaborazione tra le public development banks come sono ad esempio la Caisse des dépôts et consignations (CDC) francese, la Kreditanstalt für Wiederaufbau (KfW) tedesca, o la stessa EBI. Creando un sistema comune di supporto al finanziamento delle infrastrutture, di divisione e condivisione dei rischi attraverso uno o anche più fondi di credito, si potrebbe istituire un nuovo modo di trattare le risorse di cui queste istituzioni godono.  
E i governi? La crisi dell’area euro ha riflettuto due principali fattori di rischio, quali le debolezze di alcuni paesi membri, alimentando dubbi sulla sostenibilità del loro debito pubblico, e l’incompletezza della costruzione europea, che invece facilita timori sulla reversibilità dell’unione monetaria. Per cui, a determinare gli spread di rendimento dei titoli sovrani, non concorrono solo le differenze nelle finanze pubbliche, perché ciò che si paga è anche un vero e proprio timore di break up. Uno studio interessante[5] ha cercato di capire come leggere il significato del mispricing tra i rendimenti riferiti al finanziamento di lungo termine dei governi se si considerano investitori esteri o residenti. Infatti il caso di break up, estremamente improbabile per taluni economisti, non avrebbe effetti né certi tantomeno prevedibili. Tuttavia, molto più probabilmente, sarebbe seguito da un’immediata e forte svalu­tazione delle nuove valute dei paesi periferici e da una forte rivalutazione della nuova di­visa tedesca stimate rispettivamente, addirittura, in –20% e +20% rispetto a quanto l’euro sia riuscito ad appianare. E così, mentre un investitore che assume una posizione nei con­fronti di una qualsiasi valuta, si espone ad un rischio per via della fluttuazione del tasso cambio il quale può muoversi in entrambe le direzioni, in caso di break up, il rischio di cambio diverrebbe invece asimmetrico. Infatti la probabilità che la valuta di un paese periferico si apprezzi è considerata nulla, mentre il suo deprezzamento è dato per certo. L’ex Governatore della BCE Jean-Claude Trichet, per descrivere la situazione già allora in atto, e in particolare la pres­sione esercitata sui paesi periferici dai mercati, parlava di one way bet per descrivere questa asimmetria ancora una volta frutto di una disomogeneità (non solo economica) tra i paesi dell’area euro.
 
Come si può biasimare tale “scommessa / timore”? Del resto, diverse alternative spiegherebbero una svalutazione così importante. La prima è il raggiungimento di un livello di costo del debito insostenibile al punto da spingere il paese verso il default; la seconda è l’uscita dall’euro che non consentirebbe la restituzione del debito nella nuova valuta portando nuovamente il default; la terza sono entrambe le cose.[6] Sia chiaro che non c’è diretta correlazione tra default e break up. Il caso Grecia ne è una palese dimostrazione. Ad ogni modo, sotto questo presupposto quindi, che si traduce, come detto, in una paura e di fatto in un costo, la difficoltà del ruolo degli investitori di lungo termine cambia a seconda che questi siano residenti o meno nei paesi periferici dell’area valutaria. Infatti, se ipotizziamo un investimento in una diversa valuta ($→€) sappiamo che è  comunque possibile assicurarsi attraverso l’acquisto di contratti forward, che consentono di bloccare il tasso di cambio nel futuro. È certo che tra valute di paesi sviluppati potrebbero anche non essere necessari contratti integrativi di copertura. Ma nel caso di ipotesi reale di break up non solo sarebbe una scelta immediata, ma addirittura perderebbe di senso, rendendo così del tutto inefficiente la stipula di contratti a termine. Per questo si è obbligati a conteggiare l’ipotesi di deflagrazione dell’euro nella valutazione dei diversi titoli di debito pubblico europei. E siccome a pagarne le conseguenze sono i paesi periferici, anche su questo punto l’Italia troverebbe difficoltà nell’accogliere investitori long-term.
 
Se invece si considerasse lo stesso investimento dopo la fatidica rottura dell’euro lo scenario sarebbe diverso, perché il rischio di cambio non entrerebbe più tra i fattori che determinano il deprezzamento dei titoli di Stato. Tornando sul mercato i singoli tassi di cambio si potrebbe infatti adottare nuovamente la tecnica di copertura. Questo sarebbe, senza ombra di dubbio, un effetto positivo. Un’altra conseguenza da considerare potrebbe essere la capacità di tornare ad una propria sovranità in termini di politica monetaria. Una rinnovata autonomia nelle decisioni fiscali e monetarie potrebbe contribuire a creare quei presupposti necessari alla ripresa economica. D’altro canto però, una paura comune ricorda che si potrebbe cadere in tentazione adottando politiche monetarie che fomentano la crescita ma a danno di un tasso d’inflazione maggiore.
 
Si capisce quindi come sia intenso il lavoro per mantenere la vicinanza con gli investitori long-term e soprattutto quante siano le condizioni necessarie a livello europeo per accogliere i fondi produttivi. Lo studio esaminato si conclude lasciando l’idea che il break up avrebbe i suoi risvolti  negativi solo nell’aumento dell’inflazione, ma io termino chiedendomi: è giusto che sia solo una previsione di questo tipo a spaventare all’idea di rottura dell’euro?
 
Alberto D'Antoni
 


[1] Ho ampiamente avuto modo di trattare dell’argomento nel working paper “Analisi sul settore bancario. Dal credit crunch all’operazione di rafforzamento del capitale delle banche.”
[2] Si veda in particolare la recente audizione presso il Senato di Federico Luigi Signorini direttore centrale per la vigilanza bancaria della Banca d’Italia.
[4] (in greco Πανάκεια) è una figura della mitologia greca che rappresenta la personificazione della guarigione universale e onnipotente 
[5] Marchettini S. (2012), “Timori di rottura dell’Eurozona e segmentazione degli investitori in titoli di Stato italiani”, B&B
[6] In merito a questi diversi scenari è interessante fare riferimento ad un paper del dipartimento economic research della UBS investment: http://bruxelles.blogs.liberation.fr/UBS%20fin%20de%20l'euro.pdf di cui feci un approfondimento in EconoMia&Finanza : http://economia.iobloggo.com/640/approfondimento-su-euro-break-up-the-consequences-della-ubs

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