Si sta a lungo dibattendo sul ruolo ricoperto dalla figura
dell’investitore long-term in tema di crescita e sviluppo. Dato per assodato
che molte economie floride si siano scontrate con quella che viene chiamata
“double-dip recession”, la maggior parte dei governi, anche europei, ha quasi
del tutto perso la possibilità di reperire sufficienti risorse finanziare da
poter investire nei settori che più si confanno all’idea di crescita e sviluppo
per l’appunto, e cioè le infrastrutture, l’energie rinnovabili, il settore
R&S ed ultimo, ma non meno importante (specialmente in Italia), il sostegno
alla PMI. Lo stesso vincolo di bilancio spoglia ancor di più i governi della
capacità di mettere in atto facilmente quelle politiche anticicliche volte a
stimolare la domanda aggregata e mitigare la disoccupazione. È opportuno
inoltre mettere a fuoco il contesto in cui tutto questo prende forma, ossia una
fase di sfrenato deleveraging finanziario ed un momento di ampie riforme nella
disciplina fiscale. Se prendiamo in considerazione, ad esempio, il classico
modello del settore bancario europeo[1]
ogni singolo elemento della crisi finanziaria, così come del nuovo apparato
normativo in tema di capitalizzazione e soprattutto del processo di
desaturazione della leva finanziaria, ha contribuito a lederne il funzionamento.
Dopotutto l’introduzione di piani normativi come Basilea III, ancor più
esigenti sulla copertura dei rischi a mezzo di patrimonio core, e l’inasprimento congiunturale delle condizioni di
finanziamento, non hanno nascosto nemmeno uno degli aspetti negativi con i
quali si è presentato il fenomeno del credit crunch. In merito a questo sono
stati presi dei provvedimenti che però non sempre sono riusciti a sembrare più
di un rattoppo. Gli LTROs per esempio; che, contrariamente al loro nome, hanno
avuto un effetto di breve termine dimostrando di non essere adatti al
finanziamento dell’economia nel suo complesso. Ed ancora, l’unione bancaria[2], il cui compito è quello di
rendere più omogenee le diverse strutture normative nazionali, si è confermata
essere una operazione non immediata e molto complicata.
In altri termini la combinazione di declino economico con
l’aumento nella difficoltà di finanziamento hanno indebolito ogni settore
economico. Gli investitori long-term hanno subito una discesa vertiginosa nelle
statistiche dell’eurozona. Se si pensa che prima della crisi, secondo dati
della Bank for International Settlement, circa il 40% degli investimenti
produttivi a lungo termine erano sostenuti da investitori istituzionali
long-term anche attraverso l’acquisto di quote di partecipazione ai capitali
delle banche, e che ora quella percentuale si sia ridotta prima al 35% poi a
poco più del 18%, ci si può chiedere in che modo sia possibile sviare questa
penalizzazione dalla crescita economica. Ma soprattutto: esistono dei
finanziatori in grado di sostituire il compito delle banche? Franco Bassanini
presidente di Cassa Depositi e Prestiti insiste molto sul fatto che CDP sia
l’unica istituzione ad aver introdotto fondi atti al risanamento dei fabbisogni
finanziari del sistema creditizio. E queste iniziative hanno avuto un effetto
positivo specialmente sulle PMI il cui rapporto con il credit crunch si può
paragonare a quello tra condannato e boia. La stessa Cassa sta attualmente
lavorando con la European Investment Bank al fine di instaurare un meccanismo
di finanziamento degli investimenti infrastrutturali europei attraverso
l’iniziativa dei “Project Bond”[3].
Bassanini però ci tiene a sottolineare che non saranno una
“panacea”[4]; ovvero non potranno
certamente essere l’unica alternativa a cui il sistema di finanziamento
long-term si deve adoperare. Una buona via da intraprendere dovrebbe essere
quella di una maggiore e più forte collaborazione tra le public development
banks come sono ad esempio la Caisse
des dépôts et consignations (CDC)
francese, la Kreditanstalt für Wiederaufbau (KfW) tedesca,
o la stessa EBI. Creando un sistema comune di supporto al finanziamento delle
infrastrutture, di divisione e condivisione dei rischi attraverso uno o anche
più fondi di credito, si potrebbe istituire un nuovo modo di trattare le
risorse di cui queste istituzioni godono.
E i governi? La crisi dell’area euro ha riflettuto due
principali fattori di rischio, quali le debolezze di alcuni paesi membri,
alimentando dubbi sulla sostenibilità del loro debito pubblico, e
l’incompletezza della costruzione europea, che invece facilita timori sulla
reversibilità dell’unione monetaria. Per cui, a determinare gli spread di
rendimento dei titoli sovrani, non concorrono solo le differenze nelle finanze
pubbliche, perché ciò che si paga è anche un vero e proprio timore di break up. Uno studio interessante[5] ha cercato di capire come
leggere il significato del mispricing tra i rendimenti riferiti al
finanziamento di lungo termine dei governi se si considerano investitori esteri
o residenti. Infatti il caso di break up, estremamente improbabile per
taluni economisti, non avrebbe effetti né certi tantomeno prevedibili.
Tuttavia, molto più probabilmente, sarebbe seguito da un’immediata e forte svalutazione
delle nuove valute dei paesi periferici e da una forte rivalutazione della
nuova divisa tedesca stimate rispettivamente, addirittura, in –20% e +20%
rispetto a quanto l’euro sia riuscito ad appianare. E così, mentre un
investitore che assume una posizione nei confronti di una qualsiasi valuta, si
espone ad un rischio per via della fluttuazione del tasso cambio il quale può
muoversi in entrambe le direzioni, in caso di break up, il rischio di
cambio diverrebbe invece asimmetrico. Infatti la probabilità che la valuta di
un paese periferico si apprezzi è considerata nulla, mentre il suo
deprezzamento è dato per certo. L’ex Governatore della BCE Jean-Claude Trichet,
per descrivere la situazione già allora in atto, e in particolare la pressione
esercitata sui paesi periferici dai mercati, parlava di one way bet per descrivere questa asimmetria ancora una
volta frutto di una disomogeneità (non solo economica) tra i paesi dell’area
euro.
Come si può biasimare tale “scommessa / timore”? Del resto,
diverse alternative spiegherebbero una svalutazione così importante. La prima è
il raggiungimento di un livello di costo del debito insostenibile al punto da
spingere il paese verso il default; la seconda è l’uscita dall’euro che
non consentirebbe la restituzione del debito nella nuova valuta portando
nuovamente il default; la terza sono
entrambe le cose.[6] Sia chiaro che non c’è
diretta correlazione tra default e break up. Il caso Grecia ne è una palese
dimostrazione. Ad ogni modo, sotto questo presupposto quindi, che si traduce,
come detto, in una paura e di fatto in un costo, la difficoltà del ruolo degli
investitori di lungo termine cambia a seconda che questi siano residenti o meno
nei paesi periferici dell’area valutaria. Infatti, se ipotizziamo un investimento
in una diversa valuta ($→€) sappiamo che è
comunque possibile assicurarsi attraverso l’acquisto di contratti
forward, che consentono di bloccare il tasso di cambio nel futuro. È certo che
tra valute di paesi sviluppati potrebbero anche non essere necessari contratti
integrativi di copertura. Ma nel caso di ipotesi reale di break up non solo sarebbe una scelta immediata, ma addirittura
perderebbe di senso, rendendo così del tutto inefficiente la stipula di
contratti a termine. Per questo si è obbligati a conteggiare l’ipotesi di
deflagrazione dell’euro nella valutazione dei diversi titoli di debito pubblico
europei. E siccome a pagarne le conseguenze sono i paesi periferici, anche su
questo punto l’Italia troverebbe difficoltà nell’accogliere investitori
long-term.
Se invece si considerasse lo stesso investimento dopo la
fatidica rottura dell’euro lo scenario sarebbe diverso, perché il rischio di
cambio non entrerebbe più tra i fattori che determinano il deprezzamento dei
titoli di Stato. Tornando sul mercato i singoli tassi di cambio si potrebbe
infatti adottare nuovamente la tecnica di copertura. Questo sarebbe, senza
ombra di dubbio, un effetto positivo. Un’altra conseguenza da considerare
potrebbe essere la capacità di tornare ad una propria sovranità in termini di
politica monetaria. Una rinnovata autonomia nelle decisioni fiscali e monetarie
potrebbe contribuire a creare quei presupposti necessari alla ripresa
economica. D’altro canto però, una paura comune ricorda che si potrebbe cadere
in tentazione adottando politiche monetarie che fomentano la crescita ma a
danno di un tasso d’inflazione maggiore.
Si capisce quindi come sia intenso il lavoro per mantenere
la vicinanza con gli investitori long-term e soprattutto quante siano le
condizioni necessarie a livello europeo per accogliere i fondi produttivi. Lo
studio esaminato si conclude lasciando l’idea che il break up avrebbe i suoi risvolti
negativi solo nell’aumento dell’inflazione, ma io termino chiedendomi: è
giusto che sia solo una previsione di questo tipo a spaventare all’idea di
rottura dell’euro?
Alberto D'Antoni
[1] Ho ampiamente avuto modo di trattare dell’argomento nel working paper
“Analisi sul settore bancario. Dal credit crunch all’operazione di
rafforzamento del capitale delle banche.”
[2] Si veda in particolare la recente audizione presso il
Senato di Federico Luigi Signorini direttore centrale per la vigilanza bancaria
della Banca d’Italia.
[4] (in greco Πανάκεια) è una figura della
mitologia greca che rappresenta la personificazione della guarigione
universale e onnipotente
[5] Marchettini S. (2012), “Timori di rottura dell’Eurozona
e segmentazione degli investitori in titoli di Stato italiani”, B&B
[6] In merito a questi diversi scenari è interessante fare
riferimento ad un paper del dipartimento economic research della UBS
investment: http://bruxelles.blogs.liberation.fr/UBS%20fin%20de%20l'euro.pdf
di cui feci un approfondimento in EconoMia&Finanza : http://economia.iobloggo.com/640/approfondimento-su-euro-break-up-the-consequences-della-ubs
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